Caccia ai marinacci e a nocetta

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Quel Fiore, che in casa nostra faceva un po’ tutti i mestieri, il fattore, il bambinaio, lo stalliere, l’uomo di compagnia, spesso, tornando dai suoi giri per i poderi, ne riportava bellissimi mazzi di uccelli. Non si seppe mai se uccisi da lui, ricevuti in dono, o comprati da qualche cacciatore di frodo. Li traeva con atto trionfale dalla carniera di fustagno e li gettava sulla tavola in cucina, davanti alla Beppa : alla quale, prima ancora di consultarsi con chi che si fosse, ordinava di pelarli mentre erano ancora calduccini, ché per cena si doveva fare l’arrosto. Nell’autunno estremo, tempo più particolarmente propizio a tali cacce ed arrosti, erano quasi sempre tordi ebbri di coccole di ginepro ed olive, pettirossi, calenzuoli, pispole e pispoloni ghiotti di bruchi pratensi, e troppo illusi sulla bontà dell’animale uomo per mettersi in salvo al momento opportuno; raramente qualche pavoncella e beccaccino : tutti uccelli di passo, insomma, di becco fino e di carne tenera e saporosa.

Giungeva in questo la sera. E la Beppa, finita che aveva la sua pelatura, riponeva gli uccelli a manciate nella madia, chiudeva porte e imposte in faccia alla sizza foriera dell’inverno; indi acceso il lume a mano e appiccicatolo alla cappa del camino, tirava giù da un’asse il girarrosto col suo spiede, che nettava e spolverava con ogni cura. 

Cominciava con una manatella odorosa di ginepro e di mortelle che accomodava lungo il frontone del focolare, e su cui poneva di traverso, ed un poco in croce, due o tre pezzetti da catasta di vecchia quercia o di cerro.

Frattanto Fiore con lo spiedo puntato ritto sulla tavola, raccolti a sé gli uccelli, i quadretti di pane, ve li andava infilando con grande maestria – due uccelli e un crostino – e fra gli uni e l’altro, un paio di foglie di salvia che strappava da una ciocca fresca e stillante, da lui colta nell’orto prima di tornare in cucina. Quando la stidionata era fatta, e strinte le chiavette che obbligavano dai due lati la cacciagione e i crostini a stare uniti stretti come conveniva per la cottura, l’aspergeva abbondantemente con l’acqua limpida della mezzina, confidando poi tutto per un momento alla Beppa, che lo lasciasse inzupparsi e sgrondare. Egli dal canto suo, tornato al fuoco, formava in quel mentre, con la paletta, una larga e lunga striscia di brace e di tizzi sul davanti del focolare, alla cui estremità poneva il girarrosto ed il suo castellino. Riprendeva alfine dalle mani della serva lo spiede, lo assicurava tra i due ordegni e caricava la macchinetta, che subito si metteva a girare.

Così a lungo. Mettendo sempre su nuova legna, e tirando nuova brace sotto lo schidione, Fiore, il volto arrossato ed arso dalla fiamma, non distraeva un istante l’occhio dall’arrosto, che richiedeva di esser più unto e sorvegliato con più cuoceva e s’avvicinava allo stato della perfezione.

Ma l’arrosto era in tiro ormai, e già la Beppa asciugava e posava sulla tavola il grande vassoio di porcellana bianca, nel quale era usato servirlo a cena. Pochi minuti dopo, Fiore, tolte le chiavette allo spiedo, spingeva con due dita da questo nel vassoio nitido, i morbidi uccelli di color bruno lucido, i biondi crostini croccanti impastati di salvia, la cui calda fragranza si spandeva deliziosamente per l’aria.

Leggendo quanto sopra, non credo possa esistere un lettore insensibile alla delizia della fragranza che si emana dal camino del racconto di Ardengo Soffici edito nel lontanissimo dicembre 1933. Tordi, allodole, beccaccini ecc. allo spiedo : poche altre pietanze risultano più succulente, amabili per il palato ed insuperabili se magari abbinate, come da tradizione, ad una nostrana Lacrima di Morro d’Alba, o ancor meglio un Nobile di Montepulciano, se non addirittura il sublime Brunello di Montalcino.
Nessuna descrizione accademica potrebbe elencare in modo migliore le modalità per preparare la cacciagione allo spiedo; da tali brani letterari – seppur si tratti chiaramente di letteratura di nicchia – anche i più rinomati “maghi dei fornelli” dovrebbero apprendere con vera umiltà. Di certo “cucchiai” diligenti ed alla bisogna acculturati come l’Artusi ne saranno stati senza dubbio a conoscenza, ma, ad esempio, un pasticcione e chiacchierone come il Vissani dovrebbe ben rileggere il racconto sopra riportato prima di avvicinarsi a braci di ginepro, spiedi e girarrosti!
Ma per completare una spiedata tipica di pieno inverno quale è in atto, e che si rispetti, non possono mancare 3 o 4 “marinacci”, nome dialettale sassoferratese della Cesena il cui nome scientifico è Turdus Pilaris. Questo bellissimo e loquace rappresentante dei Turdidi (è quindi anch’esso un tordo), nelle giornate più rigide dell’inverno si può incontrare e cacciare nel nostro territorio appenninico ove siano presenti caratteristiche simili a quelle che si trovano sui “mammelloni” montani della Pantana e Val della Fratta. Qui al limite del bosco ceduo sono molto diffusi i Ginepri, in forma arbustiva o di pianta vera e proprio, le sommità sono invece a prato/pascolo, se non verrà istituito il Parco Eolico! Tutti i Tordi, ed i “marinacci” in particolar modo, sono ghiottissimi delle succulenti bacche purchè ben mature, e quindi scure nel colore, di tale pianta molto comune sui nostri monti. Per non parlar poi delle altre prede destinate allo spiedo e girarrosto catturate perlopiù con l’appostamento più evocativo del nostro recente passato venatorio : la “Nocetta”! E’ questo un capanno più o meno ampio, ben mimetizzato con frascame ottenuto dal sito, dotato di feritoie per poter colpire con fuciletti di piccolo calibro, sulle vicine piante opportunamente decespugliate alle sommità e denominate di “buttata” – tra le quali appunto almeno un Noce -, tordi e fringuelli e merli ecc.; un tempo erano consentiti anche quelli di mole minore. L’apparato più affascinante e bello del complesso di caccia è però la batteria dei richiami, cioè tanti uccelli delle medesime specie di quelle consentite dalle leggi vigenti, chiusi ciascuno nella propria gabbia a norme C.E., che emettono il loro melodioso e soave canto per attirare i consimili durante il passo autunnale e invernale. Questa forma di caccia è attualmente in forte calo nel territorio sassoferratese.

Ricordo ancora quando, a quei tempi ero un fanciullo, mio Padre mi iniziava alla Caccia a Nocetta presso quella di proprietà di Enrico (Righetto) Menzolini e Pietro Sabbatini, amici di Babbo, che era dislocata sul “Faggeto”, frazione prima di Valdolmo e sulla dx della strada provinciale che conduce a Montelago. Qui, dopo la cacciata, dentro l’ampia e confortevole Nocetta, si consumava in tarda mattinata quello che al giorno d’oggi viene chiamato turisticamente “pranzo al sacco”. Per noi era più semplicemente l’umido alla sassoferratese in una culla abbondante di tagliatelle in una teglia, a parte, in altra teglia, pollo e patate al forno o coniglio in porchetta che Babbo aveva ordinato a Livio Brunzini. Livio era il gestore del “Baretto” e relativo albergo ristorante Appennino sulla Piazza Bassa. Pietro Sabbatini, terminato il servizio come cameriere di sala nel suddetto ristorante, ci portava i “primi” ed i “secondi” caldi e profumatissimi.
Altri tempi!

Per chiudere trascrivo un simpatico racconto dal libriccino di Marcello Cozzi – facente parte di una delle tante collane dell’Editoriale Olimpia – “Le favole del cacciatore” stampato nell’ottobre 1976 con i tipi della A.C. Grafiche di Citta di Castello (PG), lo acquistai a quei tempi al prezzo di 2.000 lire!

“LA CIVETTA E L’ALLODOLA”

Una civetta appollaiata su un paletto, quando sentì tirar la cordicella, incominciò a fare inchini e riverenze per attirare a sé un’allodola.
L’allodola, curiosa, secondo il suo costume, discese a capofitto a svolazzarle intorno.
La civetta, infastidita dal volteggio, ricomponendosi sdegnosa : – Quanto sei sciocca! – disse.
- Mi giri intorno come fossi chissà che. Non mi seccare : lo vedi : sto pensando. Va’ a giocare con quelli come te -.
- Risparmiati di fare la filosofa – le rispose l’allodola ridendo. – Facciamo parte dello stesso gioco : io finirò allo spiedo, e tu impagliata, a fare anche da morta lo zimbello -.
In quel momento arrivò la fucilata.

Franco Pesciarelli

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