Quando gli italiani emigrarono in Belgio…
|“Il mio primo giorno, non me lo scorderò mai”, racconta Urbano Ciacci, classe 1935, uno degli ultimi minatori viventi della miniera di “Bois du Cazier”. Nato nelle campagne di Cartoceto, cresciuto a Fano e tuttora residente con la sua famiglia in Belgio a Marcinelle. “Avevo 19 anni e pensavo che non avrei mai più visto la luce del giorno. Dalla gabbia era uscita una marea di uomini tutti uguali, la faccia nera come il carbone appena scavato. I capi ci chiamavano non per nomi ma con il numero delle nostre medaglie. Io, ero il 117 che mi ha portato fortuna, anche se più che altro la mia salvezza la devo alla mia Elsa. Si siamo sposati a Fano il 29 luglio 1956, un’anno dopo il mio arrivo a Charleroi. Tuttavia non avendo il nulla ost per l’espatrio, sono arrivato a “Bois du Cazier” il giorno dopo la tragedia, saltando un turno che forse mi sarebbe stato fatale”. Da quel momento, Urbano sarà anche lui nella folla accalcata che seguì, livello dopo livello la discesa degli soccorritori. Tra loro degli italiani e dei fiamminghi che quando riuscirono per primi a setacciare la mattina del 23 agosto il famoso piano 1035 metri sotto terra, dichiararono “tous morts”, “allen dood” , “tutti cadaveri” mettendo fine alle speranze dopo 15 giorni di corsa contro il tempo.
A “Bois du Cazier”, Urbano di nuovo scenderà. Parecchie settimane dopo. Il tempo di spingere gli incendi e armare di nuovo le gallerie nelle quale morirono 262 minatori intrappolati nelle viscere di una miniera che aveva la pessima fama di essere la più pericolosa del Belgio. Tra di loro 136 italiani venuti di ogni parte dello stivale. Dalle Marche erano in 13 e nove del pesarese. Dopo tre giorni, Urbano tuttavia chiede il trasferimento. “Vedevo ovunque i visi dei morti. Le associavo ai posti dove l’ultima volta le avevo visto lavorare; nello spogliatoio, immaginavo sui ganci i loro vestiti; nei parcheggi, dove avevano lasciavano le loro biciclette”. La società mineraria sa tuttavia che Ciacci è un ottimo lavoratore, che ha un potenziale per essere un responsabile di squadre. Una virtù che accomuna i minatori di origine marchigiana ed umbra che in molti saranno nominati capi nelle miniere di Charleroi, Liège e della Campine e a cui sindacati e società affideranno le loro chiusure. Gente giudicata seria, coscienziosa, affidabile, onesta dotata di quella giusta autorevolezza per dirigere uomini. Come se la tempra è anche una questione di DNA. Urbano sommerà venticinque anni di discesa. Diciotto quali “chef curion”. “Ad ogni discesa, mi è rivenuto in mente i compagni morti a “Bois du Cazier”. Non solo gli italiani ma anche i belgi, i polacchi, i francesi. Perché lì nel fondo eravamo tutti uguali. Eravamo quelli che avevano messo nel proprio lavoro la speranza di una vita migliore per se stessi e per far crescere la propria famiglia.”
Urbano è l’attuale presidente dell’associazione ex minatori di Marcinelle appartiene ad una Italia che non si può dimenticare. Un’Italia povera che ha dovuto lasciare partire i propri figli per il mondo. Erano i tempi dove il Belgio aveva bisogno di mano-d’opera per vincere quella che Van Acker, il primo ministro, titolare anche del portafoglio dell’attività mineraria , chiamò “la battaille du charbon” . Una battaglia fatta prima con i prigionieri di guerra polacchi liberati nel 47 finché la Polonia passa al di là della cortina di ferro. Poi con un protocollo con l’Italia a giugno 1946 che prevede la partenza di cinquanta mila lavoratori per le miniere del Belgio in cambio di 200 chili di carbone per ogni lavoratore al giorno. Tra il 1946 e il 1948, 65.000 uomini, convinti da manifesti di color rosa, partirono con 85 convogli. All’inizio sono parcheggiati nei vecchi campi di prigionia poi nelle abitazioni delle società miniere e nelle “barraques” spesso peggio delle case che hanno lasciato. Le clausole del contratto sono vessatorie: non possono andarsene prima di 12 mesi, pena detenzione, e nemmeno cambiare lavoro prima di aver trascorso 5 anni in miniera.
“Con la tragedia di Marcinelle”, spiega Franco Costanzi, presidente dell’associazione marchigiani lavoratori emigrati, “si segnò una svolta nella sicurezza nelle miniere.” Un problema che si voleva ignorare anche se non passava un giorno senza un morto per incidente. “Oltre alla sicurezza, Marcinelle, precisa Amilcare Venturi, rimasto a vivere ad Ougrée, responsabile dei marchigiani emigrati in Belgio, “ha avuto un’altra conseguenza. Quello di nobilitare la presenza degli italiani nel paese, che fino a quel momento erano visti come i nemici della seconda guerra mondiale alla pari dei tedeschi e a cui non si affittavano case.”
Oggi, in Belgio gli Italiani sono la seconda comunità del paese. Ci sono i figli, i nipoti, i pronipoti di chi ha emigrato tanti anni fa e non ha voluto ritornare in patria. “Perché il Belgio, dandoci lavoro, ci ha dato tanto”, precisa Urbano Ciacci. Lui, la sua vita in miniera non la rimpiange. Sicuramente perché fa parte dei fortunati che non hanno avuto conseguenze. Perché nell’invito ad andare a lavorare in Belgio, nessuno aveva parlato della silicosi polmonare. Solo il 24 dicembre 1963, il Belgio con una legge la riconoscerà quale malattia professionale. Dopo che l’Italia, a luglio 1962, aveva preso in carico l’indennizzo della malattia in attesa che il governo belga lo facesse. Intanto nei vecchi ospedali, come a Bavière di Liège, colpiscono i pannelli e le frecce che indirizzano i pazienti verso i reparti dedicati alle vie respiratorie. Sono bilingue. Il che si spiega in un paese spezzato tra il francese e il fiammingo. Salvo che lì a fare da pendant alla lingua di Voltaire è quella di Dante, segno che sono transitati lì tanti nostri connazionali.
Véronique Angeletti, Corriere Adriatico, il 8 agosto 2010