Il pericolo della giustizia: da Bartolo ai giorni nostri

Condividi su Facebook

bartolo da sassoferratoBartolo da Sassoferrato è una celebrità per i cultori della storia del diritto e tutti dovrebbero conoscere questa sua coraggiosa confessione: “Ogni volta che mi si propone un problema giuridico, prima sento quale deve essere la soluzione, poi cerco le ragioni tecniche per sostenerla”. E se questo era vero per un simile luminare, figurarsi per il magistrato qualunque.

Dunque aspettarsi dal giudice un giudizio asettico, pressoché meccanico, come una macchina in cui si infila il fatto e viene sputata fuori la sentenza, è del tutto fuori luogo. Il diritto cerca di mettere ordine e razionalità nelle vicende, tipizzandole in quadri astratti, ma poi in concreto quel diritto viene maneggiato da un essere umano, con la sua cultura (o incultura), la sua affettività, i suoi principi e, perché no? i suoi pregiudizi. Si spiega così che la parola “sentenza” si ricolleghi a “sentire”, cioè alla stessa radice di “sentimento”, non a “sapere”. I romani erano saggi.

Naturalmente tutto ciò non autorizza il giudice a strapazzare il diritto per giungere alla conclusione desiderata. Infatti il massimo rispetto va al magistrato che entra in aula con la convinzione della colpevolezza o dell’innocenza dell’imputato e poi, sulla base delle arringhe degli avvocati, conclude con una sentenza contraria alla sua prima impressione. Facendo prevalere il diritto su ciò che riteneva giusto. Sarebbe bello conoscere la percentuale dei casi in cui ciò è avvenuto.

Questa concezione pressoché sacerdotale della funzione del giudicante è meno diffusa di quanto sarebbe desiderabile. Nel nostro Paese anni fa nacque addirittura la “giurisprudenza creativa”, cioè quella dei magistrati che, per migliorare la società, avevano la confessata intenzione di “creare diritto” invece di applicarlo.

Questa volontà di trasformare la giurisdizione in attività politica è una gravissima aberrazione ma è già un’anomalia l’atteggiamento del giudice che tende alla “giustizia”. A questo ideale può tentare di dar corpo il legislatore, ma rimane tanto opinabile che, dandogli spazio, si danneggia la certezza del diritto. Il dovere di “non ascoltare le ragioni della giustizia” sarà visto come un assurdo dal cittadino medio ma lo stesso cittadino medio deve chiedersi come si sentirebbe se la legge fosse dalla sua e il giudice gli desse torto solo per una personale concezione della “giustizia”.

I profani hanno troppa fiducia nei tribunali. “Se ho ragione il giudice mi darà ragione”, pensano tutti. Invece il processo è visto in modo del tutto diverso dai professionisti. Un magistrato che, pur innocente, sia accusato, è letteralmente terrorizzato. L’avvocato di solito ha brutte esperienze alle spalle e accoglie il cliente dubitando di tutto, a cominciare da ciò che gli racconta l’interessato. E comunque sa che, anche quando ha effettivamente ragione, non è affatto sicuro che vincerà la causa. Un’avvocata che ne aveva viste tante usava dire: “Preferisco i clienti che hanno torto. Se perdono è andata come gli avevamo preannunciato e se vincono sono gratissimi. Invece quelli che hanno ragione se vincono quasi non dicono grazie, se perdono sono addirittura inviperiti”. Sbalorditiva la tranquillità con cui vengono ipotizzati due risultati opposti per la stessa vicenda processuale.

Tutto questo conduce a meste considerazioni. L’Italia ha una pessima amministrazione della giustizia perché per i giudici non esiste un controllo di produttività. Sono numerosi quanto lo sono in altri Paesi, ma da noi un processo dura molto, molto più a lungo che altrove. Poi essi non rispondono mai dei loro errori, né in termini economici né in termini di carriera, e sono rarissimamente sanzionati perfino dal punto di vista disciplinare. Sicché molti ne ricavano la sensazione di un’irresponsabile onnipotenza. Infine non hanno fatto la gavetta, cioè non sono stati avvocati, prima di essere giudici, come avviene nei Paesi anglosassoni. Dunque conoscono solo la tranquilla sicumera di qualcuno cui tutti gli altri sono obbligati a dare ragione.

In queste condizioni si avvantaggia il cittadino disonesto. Se ha torto può darsi che gli diano ragione e comunque, se proprio gli dànno torto, glielo dànno dopo molti anni. Mentre il cittadino onesto pensa che non ha nessuno cui ricorrere, in tempi ragionevoli, e anche dopo anni ed anni ancora rischia.

La riforma della giustizia è la più importante ma non sarà mai realizzata perché ne soffrono solo coloro che hanno da fare con essa, mentre per la maggior parte i cittadini non capiscono che un giorno potrebbe capitare anche a loro. Nell’indifferenza generale.

 

Aggiungi un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *