Polentiamo ? La storia di un grande piatto
|Arcevia – Femmina, la polenta è una generosa matrona. Ama tutte le farine. Quella di mais, di farro, di grano saraceno, d’orzo, di miglio e di castagne e non disdegna quella di fave e pure di fagioli. Da secoli, se le sposa con abbondanza d’acqua, di preferenza in un paiolo di rame, abilmente girata da un mestolo in legno di nocciolo. Unico difetto richiede una santa pazienza che sui nostri Appennini non gli è stata mai negata né sui monti né sotto la cappa del camino. Ieri, era il piatto del povero; oggi, un “cult” con cui toques stellate amano giocare sul sicuro con i condimenti della tradizione e con audacia. Ma è anche uno di quei rari piatti con la “p” maiuscola, perché la Polenta oltre ad essere sapori è storia di comunità e crocevia tra imperi.
MAIS O FARRO ?
La colpa è di quei quattro chicchi di mais che, nel 1658, di ritorno dalle Americhe, il nobile Pietro Gaioncelli scoprì nel fodero della sua spada e piantò in Val Camonica. Anche se fu solo ad inizio ‘800 che il mais diventò il sostentamento della popolazione italica. Ciò nonostante il suo grave limite nutrizionale: quello di rendere indisponibile per l’organismo la vitamina B3 e provocare la patologia detta pellagra. Problema superato dai Maya ed Aztechi consumando il mais cucinandolo dopo averlo immerso in un bagno di acqua e calce e rendendo di nuovo assorbibili le vitamine. Però se mentre al di là dell’oceano, fin dall’età del ferro, padroneggiava il mais, in Europa, prima del dominio del pane, l’impero romano si nutriva di “puls” ossia di polenta di farro o di fave.
IL FARRO DELLE MARCHE
Il farro, “il primo cibo dell’antico Lazio” come scrisse Plinio, tra i cereali è il simbolo delle Marche. Lustri fa Leila Segoni, con la madre Lea dell’azienda agricola Monterosso, scelsero di riportare in purezza l’antico seme “Triticum dicoccum”con il Centro di ricerca e sperimentazione per il miglioramento vegetale di Macerata (Cermis) ottenendo nel 2009, dal Ministero delle Politiche agricole, il brevetto “Monterosso Select” idoneo per la pastificazione. <<Dall’inizio – spiegano le imprenditrici – abbiamo dedicato parte dei nostri 600 ettari, a cavallo tra Arcevia, San Lorenzo in Campo e Sassoferrato, alle colture biologiche. Un lavoro potenziato da numerose certificazioni per l’esportazione, tra cui quella Kosher, e premiato dalla Regione che ha individuato nel nostro seme “il farro delle Marche”. E poi all’Expo 2015 il riconoscimento dalla CIA come “migliore rappresentante nazionale nella produzione e trasformazione del farro”.>>
L’azienda, presente anche nei supermercati, propone farro perlato, spezzato e declina la farina, macinata nel proprio mulino a pietra, in vari tipi di pasta. Altro primato, per promuoverne la conoscenza, ha dedicato al cereale “La Farroteca”, unico in Italia a proporre menù “a tutto farro”, che consiglia una polenta di stagione al tartufo e ai funghi porcini. <> (Azienda Agricola Monterosso 0721776511)
IL MAYS DI ROCCACONTRADA
Non a caso dall’altra parte delle colline, a Magnadorsa di Arcevia, ci sono le coltivazioni di Marino Montalbini, agricoltore custode del “Mays ottofile di Roccacontrada”, antico nome della città. In giro per l’Italia conquista i buongustai con una pannocchia dai colori rosso, arancio e giallo che, macinata a pietra, si trasforma in una farina dall’odore delicato ma dall’aroma intenso e dal sapore sublime. Così speciale che, nella disfida mondiale ad ottobre scorso nelle valli bergamasche, si è imposta come campione del mondo delle polente prodotte con antichi mais. In pratica ha steso nel paiolo 10 polente nobili come quella a base di “Mais Biancoperla”, la “Spinosa di Val Camonica” e di mais provenienti dalla Zimbabwe e dalla Bolivia.
Salito nell’arca del Gusto di Slow Food nel 2014, il “ Mays di Roccacontrada” è una riscoperta frutto di una “good practice” da copiare. Il risultato di un progetto tra Comune, Pro Loco, lo storico Alfiero Verdini, l’azienda agricola Montalbini con il contributo della Genetica Agraria della Politecnica delle Marche. Un mays che a febbraio è il focus dell’evento “Unadomenica andando a polenta…” e coinvolge decine di agriturismi. <<Unica pecca – spiega Montalbini – è una varietà vitrea, cioè molto dura, ha bisogno di una cottura lunga. Stesa sulla tavola, 500 grammi esigono 2,4 litri acqua; se si taglia con il filo, solo 2l. Dal momento dell’ebollizione, deve cuocere un’ora e un quarto».
Intanto mai addentrarsi nel regno della polenta non attrezzati: ci vuole un paiolo di rame e un mestolo di legno. Se la si vuole marchigiana, anche la spianatoia <
Véronique Angeletti@civetta.tv
Tutti gli appuntamenti… ad Arcevia
L’articolo Polentiamo ? La storia di un grande piatto sembra essere il primo su Civetta.tv.